Mafia

Trattativa, ribaltata in parte la sentenza in appello: scagionati gli ufficiali del Ros e Dell'Utri

La Corte d'Assise presieduta da Angelo Pellino ha rivisto il verdetto emesso ad aprile del 2018, confermando parzialmente soltanto le condanne dei mafiosi, ovvero Leoluca Bagarella e Antonino Cinà

La Corte durante la lettura della sentenza - foto Ansa

La Corte d'Assise d'Appello, presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania), ha deciso di rivedere il verdetto sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.

I giudici erano entrati in camera di consiglio, nel bunker del carcere Pagliarelli, intorno alle 13 di lunedì scorso. Ne sono usciti poco fa, alle 17.35, e hanno sancito l'assoluzione degli ex ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni, nonché dell'ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno (assistiti dall'avvocato Basilio Milio) con la formula "perché il fatto non costituisce reato". Assolto anche l'ex senatore Marcello Dell'Utri, "per non aver commesso il fatto". Confermata intergralmente soltanto la condanna per il medico e uomo di fiducia del boss Totò Riina, Antonino Cinà, ovvero 12 anni di carcere. Condanna ridotta invece a 27 anni per il boss Leoluca Bagarella: i giudici hanno ritenuto sussistente il reato ma solo tentato nei confronti del governo Berlusconi e lo hanno dichiarato prescritto, confermando invece nel resto l'accusa.

Per comprendere appieno il ragionamento della Corte occorrerà attendere 90 giorni, quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. Dal dispositivo si può dedurre che certamente la trattativa ci sarebbe stata, ma che solo i mafiosi avrebbero commesso un reato. I boss avrebbero cercato di pressare anche sul governo Berlusconi, ma Dell'Utri - come peraltro già sancito nella sentenza con la quale era stato condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - non sarebbe stato il referente.

A tutti viene contestato il reato di violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. L'udienza preliminare iniziò ormai nove anni fa e gli imputati furono rinviati a giudizio dal gup Piergiorgio Morosini a marzo del 2013. Lunghissimo e costante è stato il dibattito sull'opportunità stessa di celebrare il processo. L'accusa, rappresentata in appello dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera aveva chiesto la conferma della sentenza di primo grado, pronunciata nella stessa aula il 20 aprile del 2018 dalla Corte presieduta da Alfredo Montalto: erano stati inflitti 28 anni a Bagarella, 12 anni a testa a Dell'Utri, a Mori, Subranni e Cinà e 8 anni a De Donno.

Nel frattempo è andata prescritta la condanna a 8 anni per l'originario "supertestimone" Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, accusato di calunnia nei confronti dell'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro, e concorso esterno, ed era stata sancita la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca, tornato libero tra mille polemiche alla fine dello scorso maggio. Non era stata invece impugnata l'assoluzione piena ("perché il fatto non sussiste") per l'ex ministro Nicola Mancino, diventata definitiva da tempo. 

Ma soprattutto nel frattempo è diventata definitiva anche l'assoluzione di colui che, secondo l'accusa, avrebbe innescato la trattativa, ovvero l'ex ministro Calogero Mannino, scagionato con il rito abbreviato in tutti i gradi di giudizio.

Secondo la ricostruzione della Procura, dopo il giudizio della Cassazione che aveva reso definitive le condanne del Maxiprocesso, Cosa nostra avrebbe avviato la sua rappresaglia, anche contro i politici che non sarebbero stati capaci di intervenire per aggiustare la sentenza. Da qui, nel 1992, prima l'omicidio dell'europarlamentare Dc Salvo Lima, poi le stragi (Capaci e via D'Amelio), nonché quelle del 1993 in "continente". Mannino, temendo per la sua vita, avrebbe avviato i contatti con i boss attraverso i carabinieri. Un'ipotesi questa completamente smontata dai giudici che l'hanno processato e che hanno invece rimarcato come l'ex ministro abbia sempre contrastato la mafia.

 

Si sarebbe poi giunti ad un accordo, dice l'accusa, e infatti gli attentati si erano fermati. E' qui che si inserisce il famoso (quanto fantomatico) "papello", il documento con cui Riina avrebbe fatto pervenire le sue richieste alle Istituzioni con il tramite di Vito Ciancimino. Tra queste l'abolizione del 41 bis. Proprio nella sentenza d'appello con cui era stata confermata l'assoluzione di Mannino, il collegio presieduto da Adriana Piras aveva, tra l'altro, messo nero su bianco che in realtà nessuno dei personaggi di spicco di Cosa nostra aveva ottenuto questo beneficio in quegli anni e che molti boss a cui era stato tolto il carcere duro ci erano poi finiti nuovamente. Non a caso la Corte aveva sostenuto che la tesi dell'accusa fosse "non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti".

Massimo Ciancimino, inizialmente testimone chiave della Procura, ha consegnato una presunta copia del "papello", risultata poi, già nell'ambito del processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, in cui erano imputati Mori e Mauro Obinu, poi scagionati, un documento falso e falsificato, come numerosi altri.

Le indagini sulla trattativa furono coordinate dall'allora procuratore capo Francesco Messineo, dall'aggiunto Antonio Ingroia (oggi avvocato) e dai sostituti Vittorio Teresi (oggi in pensione) e dai sostituti Nino Di Matteo (oggi al Csm) e Roberto Tartaglia (oggi al Dap). L'allora sostituto Paolo Guido (oggi procuratore aggiunto) fu l'unico a non voler firmare l'avviso di conclusione, non condividendo le tesi dei colleghi.


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