Una finestra sulla Palermo che fu

13 persone accoltellate in una sera di ottobre: la storia dei Pugnalatori di Palermo

Tutti pugnalati in 11 punti più o meno equidistanti: le vittime erano persone di livello sociale medio-basso e di varie età. Il mandante era uno dei "pezzi da 90" della città. Palermo si svegliò nel panico e polizia e carabinieri nel buio più totale

Il 2 ottobre del 1862 il Giornale Officiale di Sicilia, fondato appena un anno prima, dà notizia di 13 persone contemporaneamente ferite a Palermo, pugnalate per l’esattezza, in 11 punti più o meno equidistanti. La descrizione fornita dei pugnalatori è simile, corporatura uguale e stessi vestiti. Una sola delle vittime - che quasi tutti i casi riportano ferite poco gravi - ha precedenti penali, e questo rende più difficile il lavoro della polizia.

1862, unità appena proclamata, il momento in Sicilia è delicatissimo. L’Unificazione dell’Italia è pressoché solo formale, e tale resterà per molti anni. E il sud, ma la Sicilia, e ancor di più proprio Palermo, sono una polveriera pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Povertà e disperazione, si uniscono alla rigidità eccessiva dei nuovi padroni, i Savoia appunto, che non tentarono mai di comprendere i bisogni e le necessità di questi “nuovi”, loro malgrado, Italiani. Preferendo sempre la strada della baionetta, delle decimazioni e della forca a quella del dialogo e della comprensione.

Le vittime dei pugnalatori sono persone di livello sociale medio-basso e di varie età: un barcaiolo di 23 anni accoltellato in via Butera; un calzolaio di 47 anni (l’unico con piccoli precedenti penali, ma si tratta di "minchiate") in via Vittorio Emanuele; un impiegato di dogana vicino la Chiesa di S. Francesco d’Assisi; un sarto di 36 anni in via Garibaldi; un impiegato del Regio Lotto ferito con un amico in piazza della Vucciria, mentre contrattava zucchine (l’impiegato del Lotto sarà colpito al colon e sarà l’unico a morire, anche a causa dell’estrema lentezza dei soccorsi); un cocchiere di 18 anni seduto sulla sua carrozza all’Olivella; uno scultore di 26 anni a Ballarò; un possidente colpito in una traversina di Via Vittorio Emanuele alta e altri due possidenti davanti l’attuale biblioteca regionale di via Vittorio Emanuele. Vicino alla chiesa di San Francesco d’Assisi, dicevo, era stato pugnalato un impiegato di dogana, di  nome Francesco Allitto. Ma questo pugnalatore era stato sfortunato: giusto da li passavano due sottotenenti dei carabinieri e due poliziotti, un capitano ed una guardia semplice, di nome Rosario Graziano.

Nonostante il tentativo di fuga dell’aggressore, il poliziotto semplice - tra i quattro in uniforme intervenuti il più basso in grado ed il peggio pagato ma anche il più veloce ed il più coraggioso - riesce ad acchiapparlo nelle vicinanze dell’Hotel Patria. L’accoltellatore è Angelo D’Angelo, palermitano 38 anni, lustrascarpe. Qualche giorno prima D’Angelo, aveva cercato di farsi mettere in carcere presentandosi alla polizia e riferendo che qualcuno lo aveva minacciato e che voleva protezione in prigione. Ma l’intervento dei suoi fratelli lo aveva fatto rimettere in libertà, suo malgrado, appena il giorno dopo! Dopo avere taciuto per 24 ore, incoraggiato certamente dai buoni metodi della polizia di allora, D’Angelo vuota il sacco. E lo vuota per bene....

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Il giorno successivo vengono eseguiti 11 arresti: 3 sono indicati come i reclutatori dei pugnalatori: Gaetano Castelli Guardapiazza (così si chiamavano i posteggiatori allora), Giuseppe Calì indoratore, Pasquale  Masotto panettiere. Tra gli esecutori, cioè i pugnalatori c’è di tutto: un calzolaio, vetraio, acconcia sedie, falegname, bracciante, venditore di commestibile, un facchino. Gente di basso ceto ma non totalmente disperata. Dalla data di “assunzione” fino al giorno dell’attentato, che sarebbe dovuto essere dimostrativo senza uccidere nessuno, i pugnalatori avrebbero preso la bellezza di tre tarì al giorno (un botto di soldi se si considera che equivalevano a circa 700 euro. Al giorno).

D’Angelo viene creduto su tutto, era una fonte attendibile e precisa. In una sola cosa non viene creduto, forse la più importante di tutte e la più scomoda al contempo. Sul mandante. Il collaboratore di giustizia, dice che dietro tutta sta macchinazione c’è il Principe di S. Elia, il proprietario dell’omonimo palazzo di Via Maqueda!! Uno dei pezzi da 90, anzi da 91 della città. Uno degli uomini più ricchi di Palermo, anche se indebitatissimo, senatore vicino al Re; era in tutti i comitati di beneficienza, assistenza, bonifica sociale e belle arti della città. La sete di giustizia era pari solo alla necessità di dare risposte alla gente e il processo, le cui sorti erano state stabilite ben prima che iniziasse, cominciò l’ 8 gennaio 1863.

L’aula del tribunale era traboccante, facce truci e marcate, facce da colpevoli come testimoniano i cronisti giunti per l’occasione da tutta Italia. Separato dagli altri imputati c’è D’Angelo, messo in un angolino, per paura che potesse essere ammazzato, da quelli che lui accusava, a colpi di manette o a morsi! Tutto il processo girava sulla testimonianza precisa di D’Angelo e nessuno degli accusati aveva un alibi. Dopo appena 5 giorni arrivò la sentenza: per i reclutatori pena di morte, ergastolo per tutti i pugnalatori tranne D’Angelo, la cui collaborazione venne premiata con una condanna più lieve a 20 “soli” anni. Anche se non ci sono tracce che D’Angelo sia davvero mai entrato all’Ucciardone. Ma trovati reclutatori e esecutori, i giudici non si posero il problema di chi era l’organizzatore, il mandante? Cui prodest? A chi giovava? Certo c’erano delle generiche accuse al partito filo borbonico, al quale però nessuno dei condannati era riconducibile. Ma le vere cause restavano avvolti nel buoi. E tutti lo sapevano.

Vengono completamente ignorate le accuse a Romualdo Trigona Principe di Sant’Elia, uno dei più bei nomi della città, come disse il Sostituto procuratore di Palermo, il piemontese Guido Giacosa, un onest’uomo, da poco arrivato a Palermo, che si stava occupando del caso. Ma il problema fu che, la stessa sera del verdetto, cioè il 13 gennaio del 1863, ci fu un'altra ondata di pugnalamenti, non sappiamo neanche dire quanti, per la ritrosia delle forze dell’Ordine ad ammettere questa nuova ondata di violenza. Tra le vittime un uomo - che poi morì per il sopraggiungere di una infezione - che fu pugnalato in via Montesanto mentre era di rientro a casa dal tribunale, dove aveva appena ascoltato la lettura del verdetto!!! Palermo si svegliò nel panico e polizia e carabinieri nel buio più totale. Qualcosa non era stata compresa...

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Il Procuratore Giacosa, utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione, cercò di capire qualche cosa di più. Ed effettivamente, dalle ulteriori indagini, cominciò a rendersi conto che il Principe di S. Elia un qualche ruolo lo aveva avuto davvero. Ma la Polizia non sembrava voler collaborare con il magistrato. Anzi con lo zampino dell’allora temutissimo Questore Bolis, piemontese anche lui, sembrò chiaro che ci fosse in atto un tentativo di depistaggio. Anzi adirittura, confida lo stesso Giacosa ad un amico, forse è proprio la polizia ad avere architettato tutta questa messa in scena. Giacosa tenta inutilmente di interessare alla vicenda il Ministro dell’Interno, che compreso quanto il giovane Piemontese fosse bravo e quanto gli mancassero sua moglie e suo figlio, rimasti in Piemonte, non mancò di promuoverlo e di rimandarlo a casa.

L’unica cosa certa è che queste vicende, prima e seconda ondata di pugnalamenti, permisero al regime imposto dai Savoia di fare un po’ di pulizia a Palermo. Per le indagini apparentemente collegate a questi fatti, vennero effettuate perquisizioni e arresti di gente che sicuramente con i pugnalamenti non c’entrava nulla, ma aveva la colpa di essere, o di essere stata in passato, mazziniana, garibaldina o filo borbonica. Insomma, una specie di strategia del terrore che permise di usare il pugno duro con tutti quelli che ancora non avevano completamente accettato il nuovo corso della storia. Si crea un problema e poi si invoca la legge marziale per risolvere altri problemi! Tra le persone colpite dal mandato di arresto anche il Senatore Corrao, garibaldino pentito, l’anima pulita, una delle poche, del Risorgimento italiano. Nonostante si fosse sottratto all’arresto, pochi giorni dopo venne fatto misteriosamente fuori a colpi di lupara nella zona di Mare Dolce. Un’altra bocca importante e scomoda chiusa per sempre.

A sistemare tutto, con la legge marziale, arrivò nell’ottobre del 1863 il Generale Giovanni Govone, che si macchierà di massacri ed omicidi. Questo clima di terrore, mal tollerato dai palermitani, sfocerà nella famosa rivolta del 7 e mezzo, nel Settembre 1866. Rivolta schiacciata nel sangue dai soldati del re, con un numero di morti che oscillò per Palermo e provincia tra 5 e 10 mila morti. Piccola curiosità: Il Giornale di Sicilia, non volle riconoscere che si era trattata di una rivolta per la disperazione. Sostenne la tesi che a fare casino fossero state delle bande di fuorilegge. Su proposta dell’editore e fondatore del prestigioso giornale, Girolamo Ardizzone, il Giornale di Sicilia lanciò una colletta per i soldati piemontesi morti negli scontri. Furono raccolte 10.750 lire. Per i palermitani assassinati dal Re fu sufficiente la fossa comune al Cimitero dei Rotoli.

Igor Gelarda, Storico originale: seguitemi sulla mia pagina Facebook


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